La sconfitta dei sobri

L’estate era iniziata da oramai due mesi ma il sole tardava ad arrivare. Pioveva incessantemente dall’inizio di giugno e la speranza di trascorrere un’estate degna di questo nome si faceva sempre più sbiadita. Tutte le previsioni parlavano di un miglioramento, e noi cominciavamo a non crederci più.
Abitavamo tutti in via degli Esposti, a quasi mezz'ora di bicicletta dal centro. Ho sempre pensato che il nome della via non fosse solo frutto del caso, ma una sorta di anticipazione del nostro destino. Non conoscevamo il significato della parola timidezza. Io, Mazzotta e Francesco facevamo gruppo da sempre. Mazzotta era un soprannome dall'origine dubbia, lui sosteneva che fu suo nonno il primo a chiamarlo in quel modo, mentre se lo portava dietro a tagliar legna nei boschi fuori città. A noi quel nome piaceva, dava l'idea di un ragazzo deciso, abile con le mani. Nacque a Pretoria da padre piemontese e madre inglese. Per uno strano scherzo del destino, Mazzotta non ereditò alcuna somiglianza fisica dai suoi genitori; l'impollinazione genetica nelle primavere sudafricane lo rese un autentico moresco, con incolmabile dispiacere per l’intera famiglia. I capelli di un nero corvino si arrotolavano perfettamente uno sull'altro, una carnagione olivastra faceva da sfondo a due occhi gravidi d'inquietudine. In compenso Mazzotta possedeva un autocontrollo degno del più zelante gerarca nazista in sede di tortura:Sono l'unico in grado di fissare negli occhi una ragazza in topless!!”, ripeteva spesso nel tentativo di stabilire un ordine gerarchico. Aveva ragione, Francesco ed io non avremmo mai resistito al richiamo della carne, ne subivamo il fascino, anche se in maniera differente.

Francesco era il quarto figlio di una famiglia veneta, pelle chiara, lunghi capelli fulvi, ai piedi sempre i soliti stivali neri a punta, e una curiosità irritante incollata a quel suo modo di gesticolare. Ciò che ai miei occhi lo rendeva simpatico era più che altro una collezione di film porno incredibile: Spingi Gonzales, Banana Meccanica, Una porcona per due, Sbatman, Biancaneve e i sette negri, I soliti colpetti e Il profumo del maschio selvatico. Alla nostra età, un'alternativa rassicurante.

Io ho trascorso gran parte della mia infanzia nella macelleria di mio zio Massimo, lo aiutavo, o forse lui faceva di tutto per farmi sentire indispensabile. Quel periodo lasciò tracce indelebili sul mio corpo. Mangiavo carne quasi tutti i giorni, riuscivo a farlo anche a colazione.

Nel quartiere non eravamo ben visti. Avevamo combinato qualche casino. Niente di particolarmente delittuoso: occupazioni di stabili dismessi e piccoli furti. Ci costò tutto in termini di reputazione, esposti ad ogni tipo di diceria perfida e infondata. Le signore della zona tuttoilfangominutoperminuto sole e senza fantasia, trovavano tutto ciò molto gratificante. Indossavano, tronfie, vestiti larghi a fiori dai colori cangianti, i visi solcati da rughe talmente profonde che richiamavano la venatura di un vecchio vinile di Leon Country. Al centro dei loro volti sorrisi scomposti con radi denti di catrame.
“Questi ragazzi li ho visti crescere, mai avrei pensato che finissero sulla strada a spacciare droga”.
“Chissà che pene faranno passare ai loro genitori, poveretti, e pensare che non mancano una domenica in chiesa”.

Non posso negarlo, la nostra esposizione è stata assolutamente voluta, pianificata. Facevamo tutto quello che ci passava per la testa senza troppi timori. La velocità delle nostre azioni era l'unica regola. Le mosse erano studiate in dettaglio. Mazzotta era la mente del gruppo: “Basta con le chiacchiere è arrivato il momento di agire”, gridava quando non vedeva abbastanza convinzione nei nostri sguardi.
Se qualcosa andava storto, la corsa s’impadroniva delle nostre gambe e dei nostri polmoni. Mentre scappavamo a volte, mi veniva voglia di fermarmi, di stare fermo per un po', come in attesa della mia anima ormai rimasta troppo indietro.
“Che cazzo fai Sandro vuoi finire dritto in bocca a questi pazzi scatenati, assetati di vendetta”, mi avrebbe gridato Mazzotta, sputando sudore. A volte più che una fuga dai bempensanti mi sembrava un'evasione da noi stessi. Probabilmente era quello meno convinto dei tre, Mazzotta e Francesco si sentivano vivi solo in queste situazioni. Io no. Non era un fatto assoluto.

L'asfalto fumava e l'afa ci stringeva la gola. Il tempo aveva finalmente cambiato direzione. Per la nostra sopravvivenza psicologica s’imponeva un rinfresco. Fu un attimo, con le nostre biciclette - naturalmente rubate - arrivammo nella zona dei colli intorno alla città. Al numero diciotto di via dei Pellegrini abitava, in una villa fantastica, uno degli avvocati più in vista di tutta la provincia. Un vero ladro, invisibile alle autorità, sempre sorridente e ben vestito. L’ammiraglia non c’era. L'intesa fu massima, raggiunta con un solo sguardo. Scavalcammo il cancello e ci tuffammo in piscina con tutti i vestiti. Mazzotta questa volta non curò come al solito i dettagli. Non tenemmo conto dei cani, due indiavolati pastori bergamaschi. Riuscimmo a scavalcare, ma con i vestiti tutti pieni d'acqua fu un'impresa pedalare come d'abitudine. Il panico fece il resto. Ci eliminò il fiato. Oltre ai cani arrivarono i vicini - allarmati dal casino generale - armati con mazze da baseball. Ci sbarrarono la strada alla fine della via. Erano in due ma gridavano come un esercito pronto a riscattare la perdita dei compagni. Non so per quale strana ragione si concentrarono solo su Mazzotta - forse per essere sicuri di prenderne almeno uno. Io e Francesco riuscimmo a fuggire. Quei figli di puttana lo presero a calci e pugni, ripetutamente, con le mazze sfasciarono - fortunatamente - solo la bicicletta.
“La prossima volta ti bruciamo insieme alla tua bicicletta del cazzo!!”, gridarono quei bastardi, mentre Mazzotta si toccava il volto per controllare che tutto fosse ancora apposto. Era una maschera irriconoscibile: perse molto sangue, l'uso della mano destra e per molto tempo anche la voglia di farsi vedere in giro. Scomparve soprattutto quel senso di appartenenza, che fino a quel momento era stata la nostra religione inconsapevole.
Ad essere sincero né io né Francesco ci sentimmo in colpa per quel suo fare caparbiamente forastico. Si rifiutava di rispondere al telefono, obbligava la madre ad inventare scuse improbabili, si faceva negare in tutti i modi. Tutto faceva sembrare ad un colpo di spugna netto, niente più bravate.

Io e Francesco passavamo i pomeriggi al bar del quartiere, un crocevia di apolidi sempre in movimento, malati inguaribili di dromomania. Potevi non vedere qualcuno per anni e salutarlo al suo ritorno come se nulla fosse successo, questo ci faceva sentire a casa. Conversare con quegli uomini, di ritorno da altri luoghi e da altri tempi, era quasi come partire, senza doversi preoccupare di nulla.
Franco chiamò il suo buco Bar Bituriko in onore di sua zia distrutta da una depressione endogena, gonfiata da una quantità spropositata di barbiturici. Con lei aveva sempre avuto un rapporto controverso, lui non doveva nutrire particolare orgoglio per quel legame di parentela. Da qualche anno viveva sola. Aveva perso il marito, deceduto in un incidente stradale insieme all'unico figlio, dopo una vita passata insieme. Da quel momento in poi l'onda depressiva si fece, per lei, sempre più oppressiva. La vedevamo spesso in giro con il suo barboncino per le strade del centro: le braccia immobili sempre attaccate al tronco, un'andatura tanto decisa quanto innaturale e una mimica facciale scomparsa nelle tenebre della malattia.
Al Bitu si beveva qualsiasi cosa e in quantità variabili, tutto dipendeva dal credito che il banco poteva sopportare: Porto Cobbler, Singapore Sling, Rob Boy, Acapulco Gold Colada e soprattutto un cocktail da brivido: il Buddha Punch, un'autentica miscela esplosiva. L'alcol per noi non era una bevanda ma un'esperienza, ci permetteva di cambiare orizzonte e in quel quartiere non aspettavamo altro. La vecchia guardia del bar ci guardava con malcelata compiacenza e con un pizzico di compassione. Portavano sulle spalle i colori dei loro viaggi ed ora si gustavano in pace calici interminabili di vino rosso. Spesso Franco si univa al loro tavolo e metteva a disposizione un'altra bottiglia, in sottofondo la voce nostalgica di Piero Ciampi. La vita al Bitu scorreva da qualche mese senza particolari novità.
Le notizie su Mazzotta si fecero sempre più rare, nessuno si esponeva con sicurezza sul suo destino. Questa sensazione di calma apparente scomparve di colpo agli inizi di maggio.

La sua apparizione destò subito qualche sorriso, soprattutto per il suo aspetto fisico. La circonferenza del suo ventre sembrava interminabile. Niente a che fare con quel ragazzo dal fisico atletico e scattante che pedalava con tanto vigore da fare invidia perfino ad un professionista. Nell’era dell’economia globale la sua pancia rubiconda sembrava racchiudere - in uno spazio relativo - tutti i valori professati dai moderni guru liberal-catodici.
“Cazzo Mazzotta di nuovo da queste parti. Non ci posso credere mi sembra quasi una visione. E’ quasi una gravidanza che non ti fai sentire e gli effetti sono incredibili. Chi è il padre?” dissi, fissandolo senza timori.

“Che bella accoglienza Sandro, io sarò ingrassato ma la tua ironia non è cambiata per nulla. Il solito caterpillar che ti trapassa le palle sempre con un sorriso e senza mai chiederti scusa. Cosa ti danno da bere in questo buco, candeggina? Sei capace di farmi rimpiangere la terra d’Albione in soli trenta secondi”.

“Vecchio maiale te ne sei stato in panciolle in Inghilterra senza degnarti di informare la tua vecchia famiglia lasciata marcire al Pilastro”.

Con il primo buddha appoggiato alle labbra Mazzotta rispose: “Che cosa cerchi delle scuse? Sai che non sono il tipo. Ho preso solo i miei quattro stracci e me ne sono andato da questa città per incrociare occhi meno disperati dei vostri. È solo sete di esperienza. Viaggiando ti rendi conto che le differenze culturali e di costume non sono altro che una cornice preziosa, che ti permette di vedere e di conoscere ciò che accomuna tutti gli esseri umani.

“Sarebbe” gli domandai.

“Ti potrà sembrare banale ma è proprio la vita che ci unisce, le esperienze quotidiane, i fatti. Avevo voglia di vedere la mia vita e quella degli altri a Londra. In fondo conosci da sempre la mia predilezione per quella città. È lei la nostra bàlia, anche se ci ha allevato a distanza. L’ardore politico, la musica, la voglia di evasione, la sperimentazione anarchica. Per noi, nasce tutto in quelle strade”, disse Mazzotta con tratti di tranquillità sempre più visibili sul viso.
“Senti ma a parte questa tua voglia di diventare il nuovo Ian Curtis della via Emilia che cosa hai combinato a Londra”.

“So che farai molta fatica a crederci, ma mi sono ingegnato in piccoli lavori: aiuto cuoco in un ristorante cinese, galoppino in una lavanderia decrepita di un ospizio nella zona nord della città; ma la vera sorpresa è stata una folle convivenza con una ragazza marocchina”, l’emozione di Mazzotta si leggeva ancora chiara negli occhi.
Guardandolo sempre più incredulo gli dissi:
“Ma che le hai dato per convincerla uno dei tuoi mitici cake infarcito di thc?”.
“Vedo che ne conservi ancora un buon ricordo”, mi disse sogghignando.
“Hai presente, Sandro, quelle classiche bancarelle piene di monili, collane d’ambra, anelli scolpiti in argento, incensi, insomma il classico paradiso per un freak nostalgico, nei pressi di Covent Garden? Ecco, lei stava dietro una di queste bancarelle, bellissima con una cascata di capelli castani e due occhi celesti da far uscire il cuore dalla gabbia toracica. Oltre al suo viso splendido mi colpì anche una di quelle collane d’argento. Da buon italiano con i miei occhiali da sole fissati sulla fronte e la mia felpa verde avvolta alla vita, cominciai a contrattare il prezzo. Non potevo permettermi di spendere venticinque sterline per una collana, ne avevo poco più di cinquecento e dovevo camparci il più possibile. Così le chiesi di farmi un prezzo rispettoso per entrambi. Si rese subito conto che non ero il solito turista pronto a farsi spellare. Alla fine me la portai via per poche sterline. Da quel momento fu un susseguirsi di incontri e nel giro di un mese mi ritrovai a vivere in casa sua. Oltre alla collana mi portai via anche il cuore di Jasmine”.
“Sei sempre il solito sciacallo, sei riuscito subito a farti mantenere anche all’estero. Visto che avevi realizzato il tuo sogno da vecchio maudit come mai hai ripreso la strada di casa”.
I brindisi si susseguirono ad un ritmo compulsivo. Puntuali come sempre, l’ulcera e il suo arrogante fastidio, rovinarono l’atmosfera.

Perso in un fiume di alcol Mazzotta riprese il suo racconto: “Sono tornato per evitare di finire il resto dei miei giorni in carcere. Jasmine è arrivata in Europa da
Chechaouen, grazie all’aiuto di un ceffo marocchino che organizzava viaggi clandestini fra la costa marocchina e quella spagnola. Scopersi quasi subito che aspettava un figlio. Sull’identità del padre mai una parola, un segreto invalicabile. Una volta avuto il bambino iniziò a soffrire di strane nevrosi. In poco tempo divenne completamente intrattabile. Al bambino ci dovevo pensare io, era una difesa ad oltranza, lei appena lo vedeva lo metteva nella vasca e iniziava a pulirlo fino a rovinargli tutta la pelle. Naturalmente non riusciva più a stare tranquilla nemmeno dietro la sua bancarella. La sua ossessione per i germi divenne giorno dopo giorno sempre più insopportabile. Quando tornavo dal lavoro mi obbligava a spogliarmi in garage, mi faceva fare la doccia sul posto e come se non bastasse mi copriva di odiosi e puzzolenti disinfettanti dalla testa ai piedi. La spesa per quei cazzo di antisettici salì di mese in mese, fino ad arrivare a cifre da capogiro: duecento sterline al mese. Dopo mesi di torture cominciai a sognare di soffocarla dentro in una vasca ricolma di sterilizzanti. La scelta fu obbligata: decisi di prendere di nuovo i miei quattro stracci – questa volta lindi e profumati – e di fare ritorno in Italia”.
“Niente male come soggiorno”, dissi.

“Franco dammi ancora un buddha”, disse Mazzotta.
“Se vai avanti di questo passo un bel
ground zero nel cervello non te lo leva nessuno”, rispose Franco.
“Franco ti pago, non farmi la filippica proprio ora, non ne ho bisogno”. Mazzotta fece un sorso e mi disse: “Ma che fine a fatto quel delinquente di Francesco?”, appoggiò il suo bicchiere ancora pieno, fece un respiro profondo, la sua testa crollò di netto sul bancone. Chissà forse Franco aveva ragione. Per una volta, poteva ascoltarlo. Io mi affrettai a finirgli il buddha. Queste sono occasioni.

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